Fonte: Il Sole 24 Ore
Il G20 di Hangzhou ha rilanciato il tema dell’overcapacity dell’acciaio cinese e, per estensione, del protezionismo commerciale nel mondo. Contro le barre d’acciaio rinforzate cinesi a fine luglio si era già mossa anche Bruxelles, che ha colpito Pechino con dazi antidumping compresi fra il 18,4 e il 22,5 per cento. Il Doha Round è morto e sepolto, il commercio internazionale langue, gli accordi di libero scambio regionali hanno perso slancio o rischiano di non andare mai in porto, come il Ttip tra Europa e Stati Uniti. Il protezionismo insomma è in ripresa.
La Ue non è l’unica a utilizzare l’arma della barriera commerciale. Il centro studi Global Trade Alert ha recentemente calcolato che da gennaio a oggi nel mondo sono stati introdotti ben 340 nuovi dazi. Dal 2009, invece, le misure protezionistiche che hanno visto la luce sono oltre 4mila: per ogni misura che incentiva il libero scambio, ne vengono varate dieci che lo rendono più difficoltoso. Ma quali sono, nel mondo, i Paesi dove i dazi sono più elevati? Se prendiamo come indicatore la media calcolata su tutte le categorie merceologiche, il Paese dove costa di più esportare sono le Bahamas: nel paradiso fiscale caraibico in media si pagano dazi del 35%, che nel caso del cotone arrivano fino al 45%. Secondo, per potenza di fuoco difensiva, è il Sudan, che in media applica dazi del 21% sulle importazioni.
In generale, il database della Wto ci dice che tra i primi venti Paesi al mondo con il grilletto facile sulle barriere doganali, tredici sono africani. Come l’Algeria, che impone dazi intorno al 20% per i prodotti chimici e petroliferi ma sfiora il 30% per la maggior parte di quelli alimentari. O come l’Egitto, che alza barriere del 28% per l’abbigliamento, mentre per le bevande alcoliche raggiunge addirittura un rincaro dell’800 per cento. Gli altri rappresentanti di spicco, in questa Top 20, sono naturalmente i grandi mercati sudamericani, l’Argentina e il Brasile. Quest’ultimo mostra una media nazionale dei dazi a quota 13,5% – a fronte ad esempio di una media Ue del 5,3% – con una serie di picchi al rialzo: del 35% sull’abbigliamento, del 25% sul resto del tessile e del 16% sugli articoli in pelle, con buona pace degli esportatori italiani che da anni se ne lamentano.
vSe invece prendiamo le macrocategorie ad una ad una, la più tartassata nel mondo è quella dei prodotti agroalimentari e, al suo interno, il sottogruppo dei latticini, dove i dazi possono far anche triplicare il prezzo di un bene esportato. Nel caso del Canada, ad esempio, i dazi sui latticini sfiorano il 250%: un’anomalia, se si considera che la media nazionale è del 4,1%, più bassa di quella della Ue. A difesa della produzione di latte e formaggi nazionali si accaniscono anche la Svizzera (148%), la Norvegia (133%), il Giappone (78%), mentre l’Unione europea – come è noto, in fatto di politiche commerciali e dazi i suoi membri si muovono come un unico attore poiché non esiste autonomia nazionale in materia – si classifica comunque fra i venti Paesi più protezionisti, con dazi sui latticini intorno al 42%. Anche le barriere a protezione del settore dell’abbigliamento possono arrivare ad essere piuttosto alte: nei sette Paesi africani che occupano i primi sette posti della classifica dei più protezionisti per questo comparto il tetto supera il 40%; subito dopo si collocano Bolivia e Brasile, appunto, con dazi sopra il 35%. Il settore dei metalli e dei minerali invece, che pure è sotto i riflettori per l’overcapacity cinese e le misure antidumping della Ue, non è tra i più colpiti: se si escludono le esose Bahamas, anche i Paesi della Top ten del protezionismo non superano quota 20%. E la Ue, nel suo complesso? Secondo la Wto, il dazio medio applicato dai Paesi dell’Unione (del 5,3%) è comunque superiore al 3,5% degli Stati Uniti, al 4,2% del Giappone, al 4,1% del Canada e al 2,7% dell’Australia. Per trovare medie più alte di quella europea, insomma, bisogna guardare ai Paesi emergenti.