Fonte: Il Sole 24 Ore
Quante sono le opere incompiute? E quanto costano in soldi pubblici?
Alla prima domanda la risposta è 838. Il dato è ufficiale, perché si riferisce all’ultimo aggiornamento dell’Anagrafe delle opere incompiute del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti (Mit), che ha censito regione per regione l’elenco degli interventi che risultavano bloccati al 31 dicembre 2015. Si va da territori virtuosi come la provincia autonoma di Bolzano con solo 2 opere incompiute (sei in meno dell’anno precedente), quella di Trento con 4 (quattro in più rispetto al 2014) o la Valle d’Aosta, sempre con 4 (tre in più di un anno prima), fino alla cenerentola Sicilia con 113. La regione siciliana ha però certificato di aver quasi dimezzato il numero rispetto alle 215 del report precedente (resta da verificare se le 102 opere mancanti all’appello siano state tutte ultimate o in parte cancellate). La nota solo parzialmente positiva, visto l’ingente numero finale, è che il totale nazionale si è ridotto di 30 unità. Alla seconda domanda la risposta è «dai 2 ai 3 miliardi di euro all’anno» spiega Andrea Gilardoni, docente di economia e gestione delle imprese all’Università Bocconi e presidente di Agici Finanza d’Impresa che ogni anno produce il dossier sui “Costi del non fare”.
Uno studio, quest’ultimo, che spiega quanto costi al sistema Paese la mancata realizzazione di infrastrutture fondamentali per il suo sviluppo. Il calcolo del team guidato da Gilardoni mette insieme le cifre derivanti da costi di investimento persi, oneri economici del mancato utilizzo, mancati benefici ambientali e sociali. Il risultato è un conto salatissimo.
«Fino a qualche anno fa queste potevano sembrare questioni marginali – puntualizza Andrea Gilardoni – ma ora non più. Per fare un esempio, la normativa inglese prevede rigorose impact analisys per determinare le ricadute economico-sociali degli investimenti pubblici».
Insomma, economisti e operatori sono accomunati da una convinzione: va riqualificato il sistema di spesa delle risorse, andando oltre il concetto di copertura finanziaria. Questo ragionamento, secondo Gilardoni, vale ovviamente per le infrastrutture e le opere strategiche, ma «può essere esteso anche agli altri ambiti della spesa pubblica. Senza un rigoroso studio sui costi e sui benefici di un intervento i risultati sono sotto gli occhi di tutti: una serie di sprechi con impatto pesante, finanziario e sociale». Ora, secondo il presidente di Agici, un impulso importante a cambiare il verso delle cose può arrivare «dall’enfasi che il nuovo Codice degli appalti pone proprio su questo aspetto. Non risolveremmo tutti i problemi, ma aiuterebbe a indirizzare la spesa in modo più efficace riducendo la discrezionalità dei politici. Inoltre, da un’analisi realistica e concreta sul ritorno sociale di un investimento ne trarrebbe giovamento anche la remunerazione dell’investimento stesso».
In attesa che la prassi si diffonda o venga definitivamente imposta, qualcuno ci pensa da sè: «Come Agici – conferma Gilardoni – siamo stati coinvolti da Enel e Bei per l’impact analysys sull’infrastruttura di interconnessione elettrica tra Italia e Slovenia».