Fonte: Il Sole 24 Ore
E’ una sfida quotidiana quella della Cina impegnata a non sfondare la linea del Piave del 6,5% di crescita nel 2016. I segnali, per il futuro, non sono buoni, fosche previsioni si susseguono gettando ombre sul reale stato di salute dell’economia cinese. La scorsa settimana il deprezzamento dello yuan che ha risvegliato l’incubo dell’11 agosto e della crisi da 5 trilioni di perdite delle borse cinesi, l’indice Pmi in calo irreversibile, la frenata di import & export e, ieri, il dato dell’inflazione rivelato dall’Istituto di statistica stabile al 2,3% nel mese di aprile, ma ben al di sotto del target del governo di un’inflazione al 3% e con pericolosi picchi in alcuni settori chiave dei consumi alimentari. Come la carne di maiale, fondamentale nella cultura cinese al punto che nel linguaggio la carne di maiale è la carne per antonomasia. Il governo cinese ha appena autorizzato lo scongelamento straordinario di 3mila tonnellate di riserve, infatti, tra le maggiori voci che pesano sull’inflazione c’è il rincaro dei generi alimentari, ad aprile è stato del 7,4% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, e in particolare, della carne di maiale schizzata del 33,5%. Non solo. C’è stato anche il calo del 3,4% dell’indice dei prezzi alla produzione, a marzo scorso attestato sul 4,3%. La borsa è in piena crisi di di fiducia perché è in calo la fiducia degli investitori, l’indice di riferimento è a 48,8 punti in aprile, dai 54,7 punti di marzo stando proprio a una fonte statale, il Securities Investor Protection. Un articolo su People’s Daily lunedì ammoniva contro misure di stimolo in grado di far crescere il debito perché il Paese può soffrire di una crisi finanziaria e la recessione economica non è esclusa. Cosa pensare e, soprattutto, che fare in un simile quadro? I margini di manovra ci sono, nonostante tutto, e si può ancora fare qualcosa in questo Paese afflitto da turbolenze e difficoltà. Questo assunto regge le 430 pagine de «La Cina nel 2016 Scenari e prospettive per le imprese» realizzato dal CeSif della Fondazione Italia Cina, a cura di Filippo Fasulo e Alberto Rossi, presentato ieri a Milano in Assolombarda. Un report – alla settima edizione – che quest’anno ha fatto un deciso salto di qualità perché più e meglio delle precedenti edizioni si concentra sull’analisi delle potenzialità ancora inespresse della piazza cinese. Intanto i ricercatori Cesif notano che la fiducia dei consumatori è stazionaria, ma i consumi continuano a crescere e la Cina rappresenta una delle maggiori piazze con opportunità di crescita, perché i consumi nelle città di seconda e terza fascia continuano a crescere. Inoltre la composizione del Pil cinese sta realmente cambiando pelle, con i servizi che per la prima volta superano la metà del totale.
Morale: il boom di consumi continuerà a offrire opportunità senza precedenti e modificherà le dinamiche competitive globali di molti settori.
Del resto qui la maggior parte delle aziende straniere sta generando profitti più elevati in Cina che nel resto del mondo. In pole position ci sono il settore sanitario, il settore alimentare, le tecnologie pulite (acqua, rifiuti solidi, energie rinnovabili) e le infrastrutture per la mobilità, oltre al retail e alla distribuzione, tutti settori in crescita. Come l’automotive, anche se a ritmo più lento del passato. Macchinari, macchine utensili, prodotti chimici sono favoriti dalla politica cinese orientata verso le classi più abbienti e con maggior capacità di spesa. Le imprese, anche italiane, che puntano al mercato interno cinese se hanno bisogno di risorse finanziarie devono attrezzarsi ad accogliere investitori finanziari e strategici cinesi nella compagine societaria, del resto lo dimostrano molti casi recenti di M&A. Mentre una strategia alternativa – suggeriscono sempre i ricercatori CeSIF – potrebbe essere quella di concentrarsi sul segmento di fascia alta o mercati di nicchia, famiglie con reddito medio sui 16mila dollari, una fetta di popolazione destinata a passare da 55 a 195 milioni di nuclei familiari entro il 2022. La Cina resta grazie a loro il principale mercato per beni d’importazione, meno attaccata dalla concorrenza cinese e per realtà che utilizzano canali di marketing e di vendita di nicchia ma di qualità, capaci di gestire canali diretti di distribuzione. La Cina è vista come una delle prime tre principali destinazioni di investimenti solo per il 58% delle imprese (-11% dal 2011), e i piani di espansione si sono ridotti dall’86% del 2013 al 56% del 2015.
Ma questo non sarà di ostacolo a chi saprà sfruttare il cambiamento new normal.