Fonte: Il Sole 24 Ore

Cosa c’entra il flash crash della sterlina di venerdì scorso (e più in generale, i ripetuti crolli della divisa britannica) con quello che potrebbe rivelarsi il primo, storico esperimento di “deglobalizzazione” di un’intera nazione? C’entra, suggerisce un acuto commento di Greg Ip, capoeconomista della redazione del Wall Street Journal. I continui aggiustamento verso il basso del pound stanno infatti spingendo l’economia britannica ad alzare (direttamente o indirettamente) barriere all’importazione di beni, servizi e lavoro.

Cerchiamo di capire meglio. Tra tutte le conseguenze di Brexit paventate dagli economisti (dal crollo della Borsa di Londra alla recessione) solo una al momento ha preso corpo: la violenta svalutazione della sterlina. Cosa significa per una nazione l’indebolimento della propria valuta? Ci sono conseguenze positive: un aumento delle esportazioni, una crescita della domanda di prodotti nazionali (quelli importati infatti costano di più), e un miglioramento del deficit delle partite correnti, che nel caso del Regno è tra i più alti tra i Paesi sviluppati (5,9% del Pil).

Una sterlina debole però porta con sé anche conseguenze negative. Per i sudditi di sua Maestà sarà più costoso viaggiare all’estero, con un pound che “compra” meno dollari ed euro rispetto al passato. Ma si verificherà anche un aumento dei prezzi di prodotti e servizi importati, quindi un incremento dell’inflazione e quindi un’erosione del potere d’acquisto degli stipendi. Non solo io inglese pagherò di più le vacanze all’estero, ma con il mio stipendio comprerò meno beni o servizi. Insomma, divento un po’ più povero. L’inflazione poi porta nel medio termine al rialzo dei tassi e quindi a una contrazione dei consumi.

Pro e contro, insomma. Ma prevalgono i vantaggi o gli svantaggi? Secondo Greg Ip non ci sono dubbi: la sterlina debole aiuterà l’economia britannica in molti modi. «Dà slancio alle esportazioni e frena le importazioni, aiutando a ridurre la componente commerciale del deficit delle partite correnti (che non a caso il Fmi stima diminuirà di un terzo entro i prosismi due anni). Aumenta il valore degli investimenti inglesi all’estero e aiuta il finanziamento del deficit». Tra l’altro se il Regno Unito esporterà meno servizi finanziari (per la perdita dell’accesso al mercato comune in caso di hard Brexit) e più beni manifatturieri (per la sterlina debole), il gap reddituale tra Londra e il resto del Paese è destinato a ridursi, portando a una migliore distribuzione della ricchezza.

Brexit insomma è un evento storico per tanti aspetti, ma in particolare per uno forse finora sottovalutato: si sta rivelando un utile “esperimento di deglobalizzazione” pilotata, per dirla con le parole di Ip. «Alzare barriere contro il libero accesso di merci, servizi, capitali e lavoro può non implicare recessione o panico – riflette il capoeconomista del Wall Street Journal – anzi contribuisce a ridimensionare le proteste contro gli effetti negativi della globalizzazione». Sarà vero? Vedremo nei prossimi mesi quali saranno i risultati del laboratorio Brexit.